charango boliviano
Ernesto Cavour e il charango boliviano

por Víctor Montoya

(Traduzione: Paola Ursomando)


Il charango è la creatura della viella spagnola, arrivata in America Latina in mano ai conquistatori durante il XVI secolo, dopo l’apogeo delle miniere d’argento del leggendario Cerro Rico di Potosí, in cui i cavalieri di capa y espada, gli imbroglioni, bohemienne e trovatori, offrivano serenate notturne alle donne di nobile lignaggio.

Con il passare del tempo, come un avventuriero che ha fallito la sua ricerca di fama e fortuna, la viella viene abbandonata al suo destino fino a finire tra le mani di meticci e indigeni, che la trasformano in charango a furia di vestirla e rivestirla, come dice Ernesto Cavour, “con legni presi dalle scatole di munizioni che arrivavano nelle miniere di Potosí, o dalle casse di alcol, e perché no, da tutumas* al sapore di chicha e delusione”. Poi acquisisce una personalità particolare, sia nella forma che nel suono, e si converte nell’espressione culturale più autentica del sentimento nativo.

Così, liberi di non crederci o di non accettarlo, la culla del charango è nell’altopiano boliviano, dove la sua voce soffia come il vento tra la paglia selvatica e le sue melodie si sfilano come cantutas tra le rocce della catena montuosa Andina. Non è strano che un charanguito ben fatto sia un vero gioiello d’arte e uno strumento che, al pizzicare le sue corde di budello, metallo o plastica, emette un suono primordiale, così puro ed armonioso, che non esiste voce al mondo che lo superi o lo eguagli.

Il charanguero boliviano, che si dedica al suo compito dando libero sfogo all’immaginazione, fa in modo che quest’oggetto di cinque corde doppie, cassa a volta e forme femminili, sia più sonoro del mandolino, della tiorba, della balalaika e di altri strumenti che invidiano la sua varietà e sonorità. Come se non bastasse, dagli anni trenta del ventesimo secolo, il maestro Mauro Nuñez, ispirandosi ai cordofoni da camera barocchi e sulla base di quattro tipi di cordofoni tradizionali boliviani, diede vita a tutta una famiglia di charangos: soprano, tenore, baritono e basso.

Il charanguero, desideroso di conservare la tradizione folklorica e la saggezza ancestrale, lavora con materiali adeguati, fino a che lo strumento, poco a poco, prende forma tra le sue mani, con le peculiarità proprie del patrimonio culturale boliviano, come sono i charangos “khirkis”, le cui casse di risonanza sono fatte con la corazza dell’armadillo, di quest’animaletto irsuto che dà la vita per l’arte e la musica. Non è un caso che il poeta Oscar Alfaro dica, nei suoi versi: “Quando morì Don Armadillo/ legò il suo corpo e l’anima / come prova d’affetto/ all’indio di nostra razza/ Lui lo prese nelle sue mani/ e gli diede nuova vita/ in un corpo di charango/ e un’anima di melodia…”.

La sua faccia fatta di arancio, cedro o salice piangente, ha una boccuccia rotonda, attraverso la quale ride, canta, grida, piange e strilla, al ritmo del cuore di chi gli fa vibrare le corde accarezzando le sue curve. Così bene si comporta il charango nelle mani di Ernesto Cavour, il quale, trattandolo con confidenza e affetto gli dice: “papacito, ‘wawita’ de pecho, ‘llok’alla’ bandido, maestro pataiperro”. Cavour sa che questo strumento, attraversato dalle corde da un capo all’altro, non è legno morto, ma legno palpitante, per questo se ne prende cura più della sua stessa vita, avvolgendolo con una tela, imbacuccandolo nel poncho o lasciandolo nel suo astuccio di cuoio, non solo per evitare che si sciupi o si scordi, ma anche per evitare che si innamori di un altro padrone.

Allo stesso tempo sa che dominare un charango è più difficile che domare un puledro selvaggio. Non a caso gli dice: “quanti penseranno che ti dominano, senza sospettare che sei tu a dominare noi. Certo, non è facile avere a che fare con il charango, che inoltre è geloso e traditore con chi lo palpeggia e lo scoccia più del dovuto, come se si trattasse di un oggetto qualsiasi. Nossignore. Per vostra informazione, il charanguito, le cui corde comunicano le vibrazioni della sua anima, è così autentico che canta e piange solo tra le mani di chi lo cerca con affetto sincero, più per sentimento che per darsi delle arie. Ah, se il charanguito potesse parlare con voce umana, ci racconterebbe anche, tra pizzicati e arpeggi, le avventure e disavventure della sua vita.

Ernesto Cavour

In questa foto, scattata in qualche punto fisso della città di La Paz, Ernesto Cavour posa con sombrero, poncho, e sciarpa al collo, e lascia trasparire la grazia di chi domina i segreti del suo particolare e bello strumento, che qui splende impeccabile sul suo petto, la cassa armonica stretta sotto l’avambraccio destro e il manico sostenuto dalla mano sinistra. Questo virtuoso del charango, dotato di mani duttili e profonda emozione interpretativa, ha cercato di dimostrare sui più importanti palcoscenici del mondo che il charango è qualcosa di più di un semplice strumento di accompagnamento.

Dalle conversazioni tra le sue dita e le corde nascono huayños, khaluyos, carnavalitos, cuecas, trotes, bailecitos, ch’utunquis, pasacalles e un’infinità di dolci melodie che solo questo gigante della musica boliviana è capace di tirare fuori dalla bocca del charango, sulla falsariga del maestro Mauro Nuñez, questo notevole musicologo e strumentista di Chuquisaca che imparò a partorire charangos per poi conversare con essi da pari a pari, con l’umiltà e la semplicità dell’indio che gli ha dato la vita e se ne è preso cura, nella buona e nella cattiva sorte, come il suo figlio più piccolo e amato.

Con questo stesso strumento che canta la vita, la morte, l’amore e il disamore, questo illustre charanguista, riconosciuto come interprete dalle infinite possibilità, imita i rumori della natura e le voci degli animali. Non è raro che il suo charango, accordato con orecchio di gatto, emetta il cinguettio degli uccelli, il raglio dell’asino, il belato delle pecore, il muggito delle mucche, il ruggito dei leoni, il nitrito dei cavalli, il fischio della locomotrice, la sirena della barca, il fruscio del vento e, su richiesta, perfino il gemito della donna amata.

Il charanguero boliviano non si stanca di inventare strumenti sempre più splendidi e sofisticati. La fantasia gli sfugge di mano e l’amore per il suo mestiere è onorato da artisti come Ernesto Cavour che, grazie al suo impegno sociale, lo carica come un fucile a tracolla lì, dove lo vuole il pubblico. Alcune volte, al vedere i suoi compatrioti sparsi per il mondo grande ed estraneo, versa lacrime al ritmo del suo charango; altre volte, deciso a manifestare il suo spirito critico, si esibisce in teatri in cui il suo charango interpreta il clamore popolare. La sua presenza non passa inosservata, nemmeno quando le assemblee sfociano nel caos. Come accadde una volta, appena salito sul palco, mentre i fischi esplodevano spegnendo il discorso incendiario degli oratori, la moltitudine restò sospesa nel silenzio, come colpita dalla sua presenza. Cavour non disse una parola, ma con il charango e con le mani, come l’arbitro con il fischietto in bocca, pose fine al tumulto e restituì al silenzio ciò che è del silenzio.

Senza ombra di dubbio, questo guru della musica Andina, che imparò a conversare con il charango all’età di dodici anni e si inserì con autorevolezza al vertice dei migliori esecutori di strumenti a corda, non smetterà mai di sorprenderci con la sua sensibilità e professionalità, perché non solo è capace di trasformare in musica tutto ciò che tocca, ma è anche capace di dimostrare che un artista può dare la vita per l’arte, offrendo il suo cuore in forma di melodie.

Glossario:

Tutumas: recipiente fabbricato con il frutto della zucca.
Chicha: bibita alcolica prodotta con mais fermentato.

Khirki:
Aspro, cialtrone.
Llok’alla:
Ragazzo indigeno. Termine frequentemente utilizzato en senso
dispregiativo.
Wawita:
Lattante.

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VÍCTOR MONTOYA nació en La Paz (Bolivia), en 1958. Su infancia y primera juventud discurrieron en el pueblo minero de Siglo XX-Llallagua, al norte de Potosí, donde se descubrió la veta de estaño más grande del mundo. En 1976 fue perseguido, torturado y encarcelado. Permaneció en el campo de concentración de Chonchocoro-Viacha hasta que, en 1977, fue liberado tras una campaña de Amnistía Internacional. Desde entonces reside en Suecia donde se dedica profesionalmente a la escritura.

sin @ para evitar el spam montoya (at) tyreso.mail.telia.com

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* IMÁGENES: (Cabecera artículo) Charango strings played 1, By Elvert Barnes from Washington DC, USA (Flickr) [CC-BY-2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons | (En el texto; orden descendente) Bolivian charango 002, By Villanueva (Own work) [Public domain], via Wikimedia Commons | Fotografía de E. Cavour remitida por el autor del artículo.

Original en español / Versión en inglés / Versión en francés / Italiano Versión en italiano / Versión en alemán / Versión en sueco.

▫ Artículo publicado en Revista Almiar, n.º 52, mayo-junio de 2010. Reeditado en julio de 2019.

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