Cronaca di un desaparecido

por Víctor Montoya

(Traduzione di Paola Ursomando)

Isaac Camacho era un meticcio di bell’aspetto, altezza media, corporatura snella, chioma tirata all’indietro, baffi sottili, occhi scuri e sguardo scrutatore. Osservando questa fotografia, realizzata in uno studio fotografico per un documento di identità, la prima cosa che risalta è una luce nei suoi occhi, come se volesse comunicare qualcosa attraverso la macchina fotografica; indossa una camicia abbottonata fino all’ultimo bottone ed una giacca di panno che, all’epoca, era una sorta di uniforme grigia che identificava i militanti poristi nel distretto minerario di Siglo XX.

Nacque nella cittadina di Llallagua e studiò nell’Istituto Americano di La Paz, dove si dedicò alla vita boheme trascurando i suoi studi, mentre sua madre, a quel tempo la chichera [1] più prospera del paese, investiva i suoi guadagni nel futuro di suo figlio, e gli inviava una somma settimanale per permettergli di vivere senza perdere l’orgoglio e la stima di quanti lo conoscevano. Ma lui, insieme ad altri studenti frustrati, deambulava per le cantine della periferia della città, sperperando il denaro che riceveva per pagare la pensione e le spese dell’Istituto. Alcuni dicono che si avvicinò ai sobborghi della capitale fino a quando, un giorno, per queste strane casualità del destino, entrò nella sua vita la magnetica personalità di César Lora, il quale lo sottrasse dalle grinfie dell’alcol e lo restituì alle miniere di Siglo XX, dove fu assunto per lavorare nella mortifera sezione Block-Caving, giacché si rifiutava di trarre profitto dal suo bagaglio culturale.

Con il passare del tempo, stimolato dalle letture dei classici del marxismo e dalla ferrea disciplina della miniera, si convertì in un lottatore indomabile, in un militante rivoluzionario esemplare e legittimo portavoce dei senza voce. Dimostrò eccellenti capacità nel compito di agglutinare simpatizzanti e finì per essere uno dei capi visibili del movimento sindacale operaio. Senza ombra di dubbio, Isaac Camacho rientrava in quella categoria di uomini di spirito ribelle, capaci di battersi fino all’ultima parola con gli avversari delle idee rivoluzionarie, che egli considerava sue perché strettamente collegate con la realtà dei suoi compagni, quei minatori che lasciavano i loro polmoni, poco a poco, nelle tenebrose grotte, da cui estraevano le ricchezze della Pachamama [2], con la speranza di forgiare una nazione più degna di quella proposta dai nemici della libertà.

Verso la metà del 1965, scatenatasi la repressione da parte del regime di René Barrientos Ortuño e dopo il ritiro massivo dei sindacalisti della Corporación Minera de Bolivia (COMIBOL), sia Isaac Camacho che César Lora, nell’intento di raggirare la persecuzione e di cercare un rifugio sicuro, abbandonarono Siglo XX diretti alla città di Sucre, dove vissero nascosti per un periodo, fino a quando il 26 luglio, resisi conto che gli agenti del Departamento de Investigación Criminal (D.I.C.) erano sulle loro tracce, decisro di ritornare a Siglo XX, con il proposito di organizzare i sindacati clandestini all’interno della miniera.

Passando per la valle di Huañuma, verso una cascina al nord di Potosí, furono intercettati dall’agente Enrique Mareño, il quale, dopo aver affittato una mula per caricare le loro cose, si incaricò di denunciarli agli organi della repressione. Così il 29 luglio, in prossimità di Sacana, a tre leghe da San Pedro di Buena Vista, gli uomini di Próspero Rojas, vestiti da civili, li aspettavano all’incrocio tra i fiumi Torcarì e Ventilla, per eseguire i piani del Ministero dell’Interno che, per espresso ordine della CIA, aveva deciso l’eliminazione fisica del dirigente minerario César Lora.

Isaac Camacho, riferendosi alle circostanze del crimine, raccontò che prima ci fu uno scambio di parole e poi una colluttazione che culminò con un colpo di revolver. Subito si divincolò dalle braccia degli aggressori, cercò con lo sguardo il suo camerata e, in preda al panico e alla confusione, lo trovò steso a terra, il volto insanguinato e la fronte perforata dalla pallottola.

Per un istante gli agenti tacquero e si guardarono. Guardavano il revolver e guardavano la vittima, intanto Isaac Camacho, commosso per il colpo che ancora gli rimbombava nelle orecchie, si inginocchiò vicino al corpo del suo compagno, che considerava un leader naturale, non solo per la sua straordinaria capacità di coinvolgimento, ma anche per le idee illuminate che, convertite in parole precise ed azioni rivoluzionarie, ne provocarono la prematura morte.

Quando gli agenti del governo si disposero alla ritirata, Isaac Camacho si armò di coraggio e reagì come scosso da una corrente elettrica. Si alzò in piedi, e rivolgendosi agli assassini, chiese a gran voce:

– Uccidete anche me, bastardi!

– Non ne abbiamo l’ordine – risposero all’unisono e si allontanarono.

Allora, tra il pianto che gli sgorgava dall’anima e il vento che gli soffiava in faccia, rimase solo con il cadavere, senza sapere a chi chiedere aiuto in quel terreno desolato e sterile. Gli lavò la ferita nel fiume e lo portò fino a San Pedro di Buena Vista, dove si rivolse ai contadini per dargli una sepoltura provvisoria, a malapena avvolto con drappi e coperte.

Il pittore Miguel Alandia Pantoja, conoscitore dei fatti, non esitò a prendere tavolozza, cavalletto e pennelli, per plasmare la sua inquietante idea sulla tela, per perpetuare la memoria dei lottatori minerari che, fedeli ai loro ideali e alla loro condizione di classe, erano disposti ad offrire le loro vite per la liberazione nazionale e la rivoluzione socialista. L’artista, che faceva sue le epopee del movimento operaio boliviano, ci permette di riconoscere attraverso la sua opera la drammaticità e lo scenario in cui ebbe luogo il delitto: da un fondo tellurico composto da gole e colline, emerge l’immagine sfuggente di Isaac Camacho, che, vestito con poncho e guardatojo [3], porta tra le braccia il cadavere di César Lora, il cui volto coperto rivela che il colpo fu alla testa e i cui piedi scalzi fanno supporre che l’assassinato si perpetrò sulle rive di un fiume.

Isaac Camacho, poco dopo che fu seppellito il cadavere, e senza altro pensiero che quello di denunciare la polizia criminale del governo, si incamminò, al principio dell’agosto del 1965 verso La Paz, dove arrivò esausto dopo aver assistito a varie riunioni clandestine a Potosí, Siglo XX e Oruro. I minatori, ricevuta la notizia dell’assassinato consumato dai militari, non solo piansero la morte del leader che dedicò la sua vita e il suo nome alla causa degli oppressi, ma arringarono ai quattro venti per glorificare la sua immagine nella memoria collettiva, coscienti che uomini di questo tipo, i cui ideali di giustizia sono bandiere di libertà, non muoiono, per quanto i loro nemici si sforzino di sotterrarli nella polvere dell’oblio.

Isaac Camacho, un mese dopo aver denunciato i responsabili della morte di César Lora, fu catturato, condotto al campo di concentramento di Alto Madidi e infine rinchiuso nel Panoptico Nazionale, dal quale fu liberato grazie a una forte pressione popolare. Al suo ritorno a Siglo XX, proseguì la sua lotta contro al dittatura attraverso i sindacati clandestini. Così continuò fino alla notte del 23 giugno del 1967, quando si diede inizio ai tradizionali falò di San Juan, dando fuoco a mucchi di legna e roba vecchia nelle strade, mentre intorno ai fuochi crepitanti si riunivano le famiglie dei minatori, facendo tuonare fuochi artificiali e brindando alla notte più fredda dell’anno.

Ad ogni modo, quello che molti non sapevano, era che poche ore più tardi era prevista l’inaugurazione del Comitato dei Minatori [4] e per l’occasione, con le dovute precauzioni, erano arrivate il giorno prima varie delegazioni di lavoratori da tutto il Paese. Il proposito era concordare azioni concrete: esigere dal governo il rispetto per il consiglio sindacale, l’aumento dei salari, la riassunzione dei minatori licenziati e la dichiarazione di amnistia per i dirigenti esiliati, perseguitati ed incarcerati. Inoltre, volevano approvare l’appoggio morale e materiale a favore della guerriglia guidata dal comandante Che Guevara nelle montagne di Ñancahuazú.

Il presidente René Barrientos Ortuño e le Forze Armate, venuti a conoscenza dei preparativi e delle intenzioni del Comitato dei Minatori, mobilitarono le truppe dell’esercito per occupare i distretti di Catavi, Llallagua e Siglo XX, cercando di evitare lo scoppio di un nuovo focolare di guerriglia d’appoggio al Che. Così il 24 giugno i soldati, seguiti dagli agenti del D.I.C., aprirono il fuoco con le prime luci dell’alba. Gli occupanti spararono a man salva contro quelli che si trovavano ancora per strada attorno ai fuochi, mentre l’artiglieria pesante, appostata alle falde delle colline, sparava mortai e bazooca contro le abitazioni, specialmente all’altezza di La Salvadora e Río Seco. La popolazione, scossa dagli scoppi delle granate e dalle raffiche delle mitragliatrici, pensò che fossero ancora botti e fuochi artificiali propri della festività, ma poi si resero conto che si trattava di un vero e proprio massacro, che aveva lasciato una scia di morti e feriti.

36 anni dopo il massacro di San Juan, e poco dopo aver trovato il ritratto di Miguel Alandia Pantoja tra le pagine di un vecchio opuscolo, non ho potuto resistere alla tentazione di scrivere questa cronaca, attingendo dai ricordi che avevo conservato a lungo nel pozzo della memoria.

L’immagine più nitida che conservo di Isaac Camacho è quella del 24 giugno del 1967, quando, nella sua condizione di nostro concittadino e deciso ad evitare la persecuzione, saltò il muro del patio che dava a casa nostra, dove fu ricevuto dai grugniti del cane. La mattina era fredda e il massacro era finito da poco.

Io ero rimasto a letto, tremante di paura come un cucciolo smarrito, quando Isaac Camacho aprì la porta e lasciò entrare il soffio gelato del vento; indossava un cappotto nero e un cappello calcato fino alle ciglia, aveva la sigaretta in bocca, una mano in tasca e gli occhi stanchi per la veglia. Lo guardai come qualcuno che ispira sicurezza e ottimismo, quell’ottimismo che irradiano le persone di buona fede. Appoggiò la spalla alla cornice della porta e rimase lì, in silenzio, probabilmente perché in quel momento nella sua mente stava vagando l’idea di fuggire dai suoi persecutori rompendo il cerchio di ferro che l’esercito aveva creato intorno alla cittadina mineraria. Poi parlò con voce calma, quasi dolce, come se cercasse di nascondere un segreto, mentre il fumo della sigaretta, formando spirali nell’aria fredda, si dissipava tra i suoi baffi come un velo di garza.

– Questi bastardi hanno ucciso uomini, donne e bambini – disse, riferendosi ai soldati.

Mio padre si sedette sul letto, appoggiò la nuca alla parete e domandò:

– E la Radio? Cos’è successo a “Radio Voce del Minatore”?

– La Radio è stata occupata militarmente – rispose.

In effetti, quando mio padre cercò la frequenza di “Radio Voce del Minatore”, non si sentiva altro che una musica militare, come a voler manifestare l’ostilità del governo nei confronti dei lavoratori.

– Bisogna stare attenti – disse. Poi aggiunse: – Oggi stesso convocheremo un’assemblea all’interno della miniera.

Chiuse la porta e scomparve.

Due giorni dopo si seppe che in un’assemblea realizzata nel livello 411 della miniera, considerato uno dei rifugi più sicuri per i dirigenti accusati dagli sbirri della dittatura militare, fu eletto membro della Federazione Sindacale dei Lavoratori Minerari della Bolivia (FSTMB), e in quella stessa occasione si ribadirono le richieste approvate nella riunione effettuata il giorno del massacro, in Radio Pio XII: ritiro delle truppe dalle miniere, restituzione della sede sindacale e di Radio la “Voce del Minatore”, rispetto del sindacato, libertà per i dirigenti detenuti e confinati, risarcimento e divieto di sloggio per le vedove degli assassinati, ripristino dei salari ai livelli del maggio del 65 e, come se non bastasse, si fissò pure una quota quindicennale di dieci pesos a operaio, per spese di sindacato e per l’acquisizione di armi.

Da quel giorno, 27 giugno, non venni a sapere più niente di lui e non lo sentii più nominare, fino a quando, un mese e una settimana più tardi, esattamente il 30 luglio del 1967, mio padre, subito dopo colazione, mi diede una coperta e queste precise istruzioni:

– Porta questa coperta a Isaac, che sta vivendo vicino la Piazza Nueva, in casa dei Paredes, e non dire niente a nessuno…

In quell’istante, con l’intuito proprio di un bambino, capii che Isaac era nascosto. Raggiunsi la strada, dove il vento soffiava con furia, e mi incamminai verso casa dei Paredes. Bussai alla porta e, sotto la luce pallida del sole, mi venne incontro una donna che, asciugandosi le lacrime e gridando maledizioni, disse: “quei disgraziati lo hanno catturato! Corri e di’ a tuo padre che dei poliziotti travestiti se lo sono portato via stanotte in una jeep!…”

Rimasi stupefatto, senza sapere che cosa dire né che cosa fare. Non dimenticherò mai l’espressione degli occhi della padrona di casa. Si coprì con il suo foulard e chiuse di colpo la porta, con il respiro affannoso e lo sguardo perso nel vuoto.

A partire da quella mattina, non si venne a sapere mai più nulla di Isaac Camarcho, a parte le testimonianze di due ex prigionieri che dicevano di averlo visto nel carcere di Purapura, incatenato, mentre disegnava una finestra sulla parete della cella per lasciar entrare la luce del giorno. Altri dicevano di averlo visto a Chonchocoro, il più famoso campo di concentramento del Paese, dove i mercenari del governo, che avevano imparato a torturare con i cani e i gatti, posero fine alla sua vita. Ad ogni modo, la cosa più probabile è che sia stato tenuto prigioniero nelle celle del Ministero dell’Interno, dove, per ordine della CIA e dell’allora ministro Antonio Arguedas, lo torturarono fino ad ucciderlo, per poi gettarlo nel lago Titicaca da un elicottero, il corpo insanguinato e i piedi imbalsamati in un blocco di cemento.

Quando i minatori e le loro mogli reclamarono per la sua assenza, il Ministro dell’Interno disse che il 9 agosto era stato imbarcato per l’Argentina. Nulla di più falso. Si smossero cieli e terra, e non si riuscì mai a trovarlo né vivo né morto. Sparì per sempre. Che cosa hanno fatto con i suoi resti? È l’interrogativo che permane nella mente di coloro che lo consideravano uno dei leader più di spicco del movimento operaio boliviano.


NOTAS:

1 Produttore o venditore di chicha, una bevanda alcohólica a base di mais.
2
In lingua quechua: Madre terra.

3
Casco di protezione usato in miniera.
4
Ampliado Minero.


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© Víctor Montoya / Paola Ursomando (2003-2009)
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🖼 Ilustración artículo remitida por el autor

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(Original de la crónica)


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▫ Artículo publicado en Revista Almiar (2003). Reeditado por PmmC en septiembre de 2019.

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